CONTROPIANO

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Giornale comunista

domenica 29 ottobre 2017

100° anniversario della Rivoluzione bolscevica d'Ottobre

ATTUALITA’ DELLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
A breve l’anniversario del centenario della Rivoluzione Socialista d’Ottobre, il più importante evento dello scorso secolo, una tappa centrale della storia del movimento comunista e operaio.
Sappiamo che le celebrazioni fini a se stesse, come tutti i rituali che non si pongono in connessione con la realtà concreta, non hanno alcun significato per chi si pone come obiettivo la liberazione dallo sfruttamento capitalistico e la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.Noi proletari rivoluzionari, impegnati nei vari fronti della lotta di classe, guardiamo dunque al centenario della Rivoluzione d’Ottobre non come una vuota giornata commemorativa, ma come un’occasione importate per capirne le ragioni di fondo e sempre valide, per estrarne le lezioni e le linee guida da seguire nelle lotte odierne, per favorire la presa di coscienza rivoluzionaria, sopratutto della classe operaia oggi divisa e spoliticizzata, e avanzare nella prospettiva rivoluzionaria.Le ragioni di ciò sono semplici ed evidenti.Oggi come ieri il capitalismo è sfruttamento bestiale degli operai e degli lavoratori oppressi. Oggi come ieri il capitalismo è miseria per tanti e ricchezze inaudite per un pugno di parassiti. Oggi come ieri il capitalismo è spoliazione economica e asservimento dei popoli. Oggi come ieri il capitalismo è reazione su tutta linea, sciovinismo, razzismo e fascismo. Oggi come ieri il capitalismo genera continuamente infami guerre di rapina.   
Per questo affermiamo l’attualità della Rivoluzione d’Ottobre, l’evento di carattere mondiale che ha confermato la validità della teoria e della tattica del movimento di emancipazione del proletariato, la necessità del Partito leninista e il ruolo delle masse nella storia, particolarmente della classe operaia, costruttrici della nuova società senza sfruttamento, con conquiste sociali impossibili nel capitalismo e un più elevato livello culturale e scientifico.
Per questo affermiamo che di fronte alla barbarie del capitalismo morente l’unica valida alternativa che la classe operaia e i popoli oppressi hanno è la rivoluzione socialista e l’instaurazione del potere proletario, mille volte più democratico della falsa democrazia borghese.

Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (Tesi d'Aprile)

 Vladimir Lenin (1917) -
Scritto il 4 e 5 (17 e 18) aprile 1917. Pubblicato il 7 (20) aprile 1917 nella Pravda n° 26. Questo articolo, pubblicato il 7 aprile 1917 sulla Pravda, contiene le celebri Tesi di aprile di Lenin, che evidentemente furono redatte da lui durante il viaggio alla vigilia del suo rientro a Pietrogrado.
Lenin presentò le tesi il 4 (17) aprile in due riunioni: in un'assemblea di bolscevichi e in un'assemblea comune di bolscevichi e menscevichi delegati alla Conferenza dei Soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia al Palazzo di Tauride.

Bibliografia minima
Storia della Russia sovietica IV: Le origini della pianificazione sovietica 1926-1929: 5. I partiti comunisti nel mondo capitalistico, 1980, Biblioteca di cultura storica

Storia della russia sovietica. III: Il socialismo in un solo paese 1924-1926. 2: La politica estera, 1969, Biblioteca di cultura storica  

Storia della Russia sovietica II: La morte di Lenin. L'interregno 1923-1924, 1965, Biblioteca di cultura storica


  • Di Edward H. Carr Einaudi ha pubblicato Storia della Russia sovietica: La rivoluzione bolscevica 1917-1923, La morte di Lenin. L'interregno 1923-1924, Il socialismo in un solo paese 1924-1926 (2 voll.), Le origini della pianificazione sovietica 1926-1929 (6 voll.); 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa; La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929) 




    John Reed -Dieci giorni che sconvolsero il mondo

    Guido Carpi - Storia della letteratura russa. Vol. 1: Da Pietro il Grande alla rivoluzione d'Ottobre - Vol. 2: Dalla rivoluzione d’Ottobre a oggi

    La discussione che ha attraversato il partito bolscevico nell’aprile del 1917 svolse un ruolo decisivo nel corso degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione d’Ottobre.
    Come ha scritto Trotskij, nella sua monumentale Storia della Rivoluzione russa:
    “Il 3 aprile Lenin giungeva a Pietrogrado dall’emigrazione. Solo a partire da quel momento il partito bolscevico comincia a parlare a voce alta e, quel che più conta, con la sua voce.”
    Prima di allora il comitato di Pietrogrado e la Pravda, il giornale del partito, vacillavano, tergiversavano e mantenevano una linea conciliazionista con la borghesia, alla stregua degli altri partiti riformisti (menscevichi e socialrivoluzionari). La vicinanza di linea politica era tale che nel marzo, sotto la regia di Stalin, menscevichi e bolscevichi stavano avviando un processo di riunificazione.
    Difatto fino all’arrivo di Lenin il partito bolscevico si comportava come l’ala sinistra della democrazia borghese e considerava la borghesia, l’unica classe legittimata a guidare la rivoluzione (nonostante non avesse svolto alcun ruolo nelle giornate di febbraio).
    Va detto che questo atteggiamento non era condiviso da tutto il partito. Gli operai vedevano il governo provvisorio come un ostacolo sulla loro strada. Il comitato bolscevico di Vyborg (uno dei bastioni proletari di Pietrogrado) già a metà marzo aveva convocato un comizio di migliaia di operai rivendicando la presa del potere da parte dei Soviet operai e contadini. Ma il comitato di Pietrogrado imponeva il veto e gli operai di Vyborg si dovettero adeguare. Non a caso in quei giorni la Pravda, scriveva che: “il compito essenziale è… l’instaurazione di un regime repubblicano democratico”.
    Il giorno dopo il suo ritorno, nella giornata del 4 aprile, Lenin si mise immediatamente al lavoro e dopo aver rimbrottato Kamenev, per le posizioni della Pravda e la censura alle sue lettere scritte dalla Svizzera, illustrò le sue tesi a una riunione di partito e subito dopo a una a cui parteciparono anche i menscevichi. Le posizioni vennero accolte con stupore ed incredulità, come se fossero state partorite da un visionario.
    Lenin il giorno dopo le mise per iscritto e chiese al giornale di pubblicarle. Si tratta delle famose Tesi di Aprile.
    Un duro confronto politico divise il partito sulle Tesi. Lenin, inizialmente isolato, riusciva nel corso della polemica a convincere i suoi compagni che in Russia le condizioni erano mature per la rivoluzione socialista. Per farlo si basò principalmente sui sentimenti più profondi della classe operaia e della base bolscevica, che era molto più rivoluzionaria dei dirigenti, a partire dal comitato di Vyborg, i marinai di Kronstadt, le cellule all’interno dell’esercito.
    Ma in un primo momento al vertice, Lenin, a tal punto era isolato, che le Tesi vengono pubblicate il 7 aprile dalla Pravda solo con la sua firma, accompagnate da una nota critica della redazione (diretta da Stalin e Kamenev) che si dissociava dalle posizioni. L’8 aprile veniva pubblicato un articolo di Kamenev (I nostri disaccordi politici) che così argomentava: “per quanto riguarda lo schema generale del compagno Lenin, ci sembra inaccettabile nella misura in cui presenta come portata a termine la rivoluzione democratico-borghese e mira a una immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista.”
    La quasi totalità dei dirigenti bolscevichi erano rimasti legati a un vecchio schema elaborato nel 1905, la cosiddetta Dittatura democratica degli operai e dei contadini, che considerava il proletariato russo immaturo per guidare la rivoluzione socialista, per cui la lotta contro i retaggi feudali doveva mantenersi dentro i limiti di una rivoluzione borghese. Ma la realtà, e Lenin si curava della realtà più che delle formule, si era incaricata di mostrare che la borghesia russa non aveva alcuna volontà rivoluzionaria; si trattava di una classe debole e totalmente compromessa con il potere degli zar, che fin dal febbraio, invece di mettersi alla testa della rivoluzione, cospirava con la monarchia per condurla alla sconfitta e collaborava ai preparativi per un colpo di stato reazionario.
    Spettava così ai lavoratori, completare quel processo che essi stessi avevano aperto il 23 febbraio del ’17. Questo significava che oltre ai compiti classici della rivoluzione borghese (di cui il più importante era l’esproprio del latifondo e la distribuzione della terra ai contadini poveri) si dovevano affrontare anche i compiti iniziali della rivoluzione proletaria (nazionalizzazione dell’industria, del sistema bancario, dei trasporti e delle comunicazioni) ed assumere il potere statale attraverso i soviet operai e contadini..
    Lenin in questo periodo veniva accusato da molti dei suoi compagni di trotskismo perché in definitiva le Tesi di aprile sposavano alla perfezione la teoria della rivoluzione permanente di Trotskij. Non a caso il gruppo di Trotskij (Mezrajontsi) nel giro di poche settimane si unì al partito bolscevico per unificarsi formalmente e definitivamente nella conferenza del luglio del ’17.
    Se il partito si fosse mantenuto sulla posizione delle “due tappe” (prima la borghesia poi in un secondo momento non meglio precisato arriverà il turno degli operai) la rivoluzione sarebbe stata sconfitta, aprendo la strada a un golpe militare, che con ogni probabilità avrebbe goduto del sostegno dei liberali e delle altre forze della borghesia russa.
    I lavoratori, i contadini e i soldati rivoluzionari avrebbero pagato con un tributo di sangue gigantesco, ancora più grande di quello del febbraio, un errore politico, che solo il ritorno di Lenin in Russia riuscì ad impedire.
    Lenin, grazie alla sua autorità sui dirigenti del partito e a una lotta implacabile riuscì a capovolgere la linea convincendo i suoi compagni nel giro di pochissimo tempo, al punto che all’apertura della Conferenza di aprile la battaglia era già vinta.
    In altre parole dovette “riarmare” il partito dal punto di vista teorico.
    Nella Storia, Trotskij si domanda se la rivoluzione sarebbe risultata ugualmente vittoriosa se Lenin non fosse riuscito ad arrivare in Russia nell’aprile del ’17.
    Lasciamo che sia lui stesso a rispondere: “L’arrivo di Lenin non fece che accelerare il processo. La sua influenza personale abbreviò la crisi. Ma si può dire con certezza che il partito avrebbe trovato la sua strada anche senza di lui? Non oseremmo affermarlo in nessun modo. In questi casi, il tempo è il fattore decisivo, ed è difficile consultare a posteriori l’orologio della storia. Comunque il materialismo storico non ha niente in comune con il fatalismo. La crisi che la direzione opportunista doveva inevitabilmente provocare, senza Lenin avrebbe assunto un carattere eccezionalmente acuto e prolungato, mentre le condizioni della guerra e della rivoluzione non lasciavano al partito molto tempo per l’assolvimento del suo compito. Così non è affatto da escludere che il partito disorientato e scisso avrebbe potuto lasciarsi sfuggire l’occasione rivoluzionaria favorevole per molti anni. La funzione della personalità ci appare qui con dimensioni davvero gigantesche. Si tratta solo di comprenderla esattamente, considerando il singolo individuo come un anello della catena della storia”.


     


domenica 17 settembre 2017

I centocinquanta anni del Capitale di Karl Marx

Un secolo e mezzo è trascorso dalla pubblicazione, nel 1867, del I Libro del  Capitale di Karl Marx, l’opera che, insieme al Manifesto del Partito Comunista del 1848, ha rappresentato una pietra miliare nella storia del movimento comunista e operaio di ogni paese del mondo. Lo ricordiamo con passione rivoluzionaria agli operai e a tutti i lavoratori.
E crediamo che la cosa più efficace, in questo nostro ricordo, sia far parlare subito Marx in prima persona.
Egli era ben consapevole non solo del valore scientifico della propria opera, ma anche dell’importanza enorme che essa avrebbe avuto politicamente, per la lotta che la classe operaia stava conducendo in tutta Europa e negli Stati Uniti d’America contro il capitale.
“E’ sicuramente il più terribile proiettile che sia mai stato scagliato in testa ai borghesi (compresi i proprietari terrieri)”, scriveva con orgoglio Marx all’operaio tedesco Johann Becker il 17 aprile 1867, parlandogli del libro a cui stava lavorando.
E sono ben note le terribili condizioni di salute e di miseria personale e familiare in cui egli portò avanti il suo lavoro a Londra in quei drammatici decenni dopo la sconfitta della rivoluzione europea del Quarantotto.
“Durante questo periodo – scriveva il 30 aprile 1867 Marx al socialista tedesco  Siegfried Meyer –  sono stato sull’orlo della fossa. Dovevo quindi utilizzare ogni istante in cui mi era possibile lavorare per portare a termine la mia opera, alla quale ho sacrificato salute, fortuna e famiglia. Io me ne infischio degli uomini cosiddetti “pratici” e della loro saggezza. Se uno volesse comportarsi come un bue, potrebbe naturalmente volgere le spalle alle pene dell’umanità e preoccuparsi solo della propria pelle”.
Un punto fondamentale vogliamo immediatamente sottolineare: l’intreccio indissolubile, in Marx, fra il suo lavoro teorico e la sua pratica rivoluzionaria di dirigente del movimento operaio del suo tempo.
Gli anni di preparazione del I libro del Capitale sono gli anni del contributo decisivo di Marx alla fondazione dell’Associazione Internazionale degli Operai (la Prima  Internazionale), della quale egli redige l’Indirizzo Inaugurale, i primi Statuti provvisori, il Programma della prima Conferenza, le Istruzioni per i delegati del Congresso di Ginevra.
Era ormai superata la stasi delle lotte operaie succeduta al 1850, il movimento era in ripresa ovunque. Ciò che Marx soprattutto desiderava era che il Capitale uscisse proprio negli anni in cui l’Europa e l’America erano scosse dalla gravissima crisi economica che ebbe il suo culmine negli anni ’60 del XIX secolo.
Il Capitale è, come le Teorie sul plusvalore e gli altri lavori economici di Marx, un’opera di continua demistificazione di tutti gli errori, le illusioni e le interessate menzogne dell’economia politica borghese, “scienza” apologetica di un sistema economico irrazionale, anarchico e distruttore di ricchezze umane e naturali qual è il modo di  produzione capitalistico.
Karl Marx ha scoperto la legge del plusvalore creato dal lavoro non retribuito l’operaio salariato, che è la legge economica fondamentale del capitalismo. Ha messo in luce le leggi immanenti che porteranno alla fine il capitalismo, che da circa un secolo è giunto nel suo  ultimo stadio.
Questo modo di produzione storicamente determinato ha sviluppato in enormi proporzioni le forze produttive e impresso loro un carattere sempre più sociale, acuendo così tutte le sue contraddizioni inconciliabili, che si manifestano nelle devastanti crisi cicliche di sovrapproduzione, come quella che abbiamo visto scoppiare nel 2007, di cui ancora subiamo le conseguenze.
Contraddizioni che possono essere superate solo con il passaggio a una nuova economia e una nuova società, basta sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione: la società socialista e comunista, che la classe operaia ha il compito storico di costruire dopo aver ridotto in frantumi con la sua rivoluzione la vecchia macchina statale della borghesia.
Allo studio, alla lotta! E’ questo l’appello che rivolgiamo a tutti gli operai, a tutti i comunisti, affinché – sotto la direzione politica di un unico Partito comunista del proletariato – diventi presto realtà anche nel nostro paese l’obiettivo rivoluzionario al quale Marx dedicò tutta la sua vita.
Da Scintilla n. 82, settembre 2017
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giovedì 11 maggio 2017

E sia ... fare un passo indietro per farne due avanti in termini di partecipazione

Intervista ad Acerbo (Prc): «Una sinistra pacifista con D’Alema? Surreale. E no a Pisapia, vuole un Pd 2.0» Intervista/Alleanze. Di Daniela Preziosi - il manifesto -

Il neosegretario: non siamo interessati a listoni che abbiano come obiettivo l’alleanza col Pd prima o dopo le elezioni. Renzi è un avversario, non uno da cui andare a mendicare un premio di coalizione. 

Maurizio Acerbo, la sua prima mossa da nuovo segretario del Prc è dire no a Campo Progressista di Pisapia?

Semplicemente non siamo interessati a una “sinistra” come la propongono Pisapia e in maniera meno netta altri, cioè listoni che abbiano come obiettivo l’alleanza col Pd. Prima o dopo le elezioni.
Renzi è un avversario da combattere non uno da cui andare a mendicare un premio di coalizione. Pisapia propone un nuovo centrosinistra, noi una nuova sinistra alternativa al Pd.
Dunque vi rivolgete a Sinistra italiana. Che però dialoga con D’Alema e i suoi di Art.1.
A Bruxelles facciamo parte del Gue e del partito della sinistra europea. Partito a cui Si ha deciso di aderire al congresso, dichiarando chiusa l’esperienza con il centrosinistra. Ci sono le condizioni per un processo unitario. Magari con la modalità della “confluenza” nata nella Barcellona di Ada Colau: senza sciogliere i partiti tutte le organizzazioni fanno un passo indietro per farne due avanti in termini di partecipazione. Tergiversare mi sembra un grave errore politico.
Non vedo perché l’Italia debba essere l’unico paese europeo senza una formazione unitaria della sinistra antiliberista con dimensioni di massa. Noi non ci rivolgiamo solo a Si, ma a tutti i mondi che hanno costruito con noi l’esperienza dell’Altra Europa, a De Magistris, a Possibile, alle Città in comune, a Diem, al coordinamento per il No sociale, alle altre formazioni comuniste, a compagne e compagni attivi nei movimenti sociali. La sommatoria fra sigle non ha senso.
Ma non vi rivolgete a Art.1.
Senza fare l’esame del sangue a nessuno, i promotori di Art.1 sono stati fino a ieri dall’altro lato della barricata. E sono ancora nella maggioranza di governo. Che la sinistra antiliberista e pacifista possa essere diretta da D’Alema e Bersani mi sembra surreale. Qualsiasi programma antiliberista decente dovrebbe prevedere l’abrogazione di centinaia di provvedimenti che loro hanno promosso e votato.
Quindi a sinistra del Pd ci saranno almeno due liste?
Spero che ci sia una credibile lista della sinistra, quella che ho delineato. Non sono io che devo dire cosa devono fare gli altri. Magari se ci sarà il premio di coalizione Mdp sarà alleato del Pd. A noi invece interessa che ci sia un soggetto unitario alternativo al Ps e al Pse e alle politiche dell’Unione europea condivise da centrodestra e centrosinistra. Insomma ci interessa una soggettività simile a Unidos Podemos, a Syriza, alla Francia Ribelle. Dico a tutti, da Fratoianni a De Magistris, che è ora di darsi una mossa. Attendere la legge elettorale o saltare il giro non mi sembrano buone soluzioni.
La pregiudiziale anti Pisapia varrebbe anche nel caso in cui Renzi dicesse no?
Ma di cosa parliamo? Pisapia ha votato sì al referendum sulla Costituzione. Non è questione di persone ma di credibilità di un progetto politico. Noi siamo dei senza potere oscurati dai media: non siamo in grado di mettere pregiudiziali. Però non per questo andiamo in giro con il cappello in mano in cerca di un seggio. Pisapia non vuole una sinistra come Mélenchon. Noi facciamo parte del partito europeo di Mélenchon. Pisapia vuole allearsi col Pd di Renzi, noi no. Propone un nuovo centrosinistra, noi una nuova sinistra. Questi progetti di Pd 2.0 servono solo a procrastinare la costruzione di una sinistra radicale e popolare, alternativa al neoliberismo, indipendente dagli oligarchi dei media e della finanza.
Non ha paura della ridotta della sinistra?
In Europa le sinistre radicali non sono minoritarie. In tutta Europa c’è una sinistra come quella di cui parlo e ha dimensioni non trascurabili, in alcuni paesi ha superato gli ex-socialisti, in altri li ha letteralmente sostituiti. Fuori dal Palazzo ci sono milioni di persone a cui bisogna parlare in maniera chiara e con un profilo credibile.
Altro che minoritarismo: è un luogo comune smentito dai risultati di Syriza, Unidos Podemos e ora di Mélenchon. Anche in Italia dove siamo riusciti come a Napoli a coniugare unità tra partiti e movimenti e un leader di rottura con l’establishment i risultati sono stati ottimi.
Se lei fosse stato al posto di Mélenchon chi avrebbe votato?
Non sta a me votare al posto dei francesi. I nostri compagni in Francia hanno avuto posizioni diverse che rispetto. Al ballottaggio la scelta era tra peste e colera. Mélenchon ha fatto bene a evidenziare che la sinistra non ha nulla da spartire con il candidato iper-liberista Macron.

Dire, fare Rifondazione


Dire Fare Rifondazione
Notiziario online del PRC-SE


 

venerdì 20 gennaio 2017

21 Gennaio 1921 - 21 Gennaio 2017

Il 21 Gennaio 1921: nasceva a Livorno

il Partito Comunista d'Italia

    Una grande vittoria del proletariato italiano!

Novantasei anni sono trascorsi dal giorno in cui i delegati di 58.783 comunisti - la parte più avanzata e consapevole della classe operaia del nostro paese – si separò dai socialisti e fondò nel Teatro San Marco di Livorno il Partito Comunista d'Italia – Sezione dell'Internazionale Comunista.
Fu una decisione di portata storica, che dette per la prima volta alla classe operaia italiana il suo partito rivoluzionario, fondato sui princìpi di Marx, Engels e Lenin e sulle basi ideologiche e organizzative stabilite dalla Terza Internazionale.
Nei punti 2, 3 e 7 del  programma adottato dal nuovo Partito il netto distacco dal riformismo socialdemocratico dei Turati e dei Treves e dall'inconcludente massimalismo dei serratiani veniva espresso con la massima chiarezza:
“2. Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l'organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica.
3. Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l'abbattimento violento del potere borghese.
7. La forma di rappresentanza politica dello Stato proletario è il sistema dei consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio e prima stabile realizzazione della dittatura del proletariato”.
Quattro mesi dopo Livorno, Antonio Gramsci così commentava quelle decisioni congressuali in un articolo dell'Ordine Nuovo, dal titolo tagliente e significativo:“Socialista o comunista?”:
“Credono i proletari che gli organismi della classe borghese possano servire come organi di governo anche per la classe proletaria, che essi possano servire a dare libertà e giustizia ai lavoratori, mentre sino ad oggi sono serviti solo a dare ad essi schiavitù e tormenti? [… ] Bisogna che il potere stesso passi ai lavoratori, ma essi non potranno mai averlo fino a che essi si illudono di poterlo conquistare ed esercitare attraverso gli organi dello Stato borghese.
… Occorre che dominatori di tutta la società diventino gli operai, i contadini, i lavoratori di ogni categoria, che essi abbiano il potere e lo esercitino attraverso istituti nuovi, i quali diano alla società una nuova forma e una disciplina di ordine e di lavoro per tutti. Occorre che ogni altra lotta sia subordinata a quella per la conquista del potere, per la creazione del nuovo Stato, dello Stato degli operai e dei contadini” (13 maggio 1921).
Fu necessaria la scissione? Se, come osservò Gramsci in un altro articolo, il non essere riusciti, i comunisti, a portare nel nuovo Partito la maggioranza dei congressisti di Livorno giovò indubbiamente alle forze reazionarie, non vi è dubbio che la nascita della Sezione italiana dell'Internazionale Comunista fu un grande risultato storico, una grande vittoria dei proletariato italiano.  Per quale ragione?
Perché il Partito Socialista non era che un amalgama di almeno tre partiti; è mancato in Italia  nel 1919-20 un partito rivoluzionario ben organizzato e deciso alla lotta. Da questa posizione di equilibrio instabile è nata la forza del fascismo italiano, che si è organizzato e ha preso il potere […]  Noi siamo persuasi che sia condizione preliminare per iniziare la trasformazione dell'economia da capitalista in socialista il possesso del governo, la rottura  completa degli attuali rapporti politici, lo schiacciamento fisico della reazione e della classe dominante. Il processo di trasformazione sarà più o meno rapido a seconda dello sviluppo delle forze economiche; esso può essere iniziato però in tutti i paesi dell'Europa e dell'America e in una serie di paesi degli altri continenti; ma può essere iniziato dopo la conquista del potere, in regime  di dittatura del proletariato(Gramsci,“L'Unità”, 26 settembre 1926).
E ancora:  “L'occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata  dalle masse  e non solo dalle masse operaie, ma anche dalle  masse contadine. Essa è stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana. [… ] Se il movimento è fallito, la responsabilità non può essere addossata alla classe operaia come tale, ma al Partito socialista, che venne meno ai suoi doveri, che era incapace e inetto, che era alla coda della classe operaia e non alla sua testa. [… ]  Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne  la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista” (Gramsci, “L'Unità,” 1° ottobre 1926).
Di grande importanza per noi comunisti del XXI secolo è anche il processo unitario che portò alla fondazione del nuovo Partito negli anni Venti del secolo scorso. Come abbiamo ricordato su “Scintilla” del dicembre scorso, concorsero alla nascita del P.C.d’I. compagni provenienti da diverse esperienze di lotta che, nei convegni di Milano e di Imola del 1920, seppero costruire insieme quella frazione comunista che si presentò unitariamente a Livorno contro i riformisti e i serratiani.
Né va dimenticato l'importantissimo ruolo propulsivo svolto da Lenin personalmente e dalla Terza Internazionale per incoraggiare i comunisti italiani a rompere politicamente ed organizzativamente con le diverse anime dell’opportunismo riformista.
Oggi, dopo l'affossamento di quel partito rivoluzionario da parte del moderno revisionismo, del togliattiano cosiddetto “partito nuovo” e della sua fallimentare “via pacifica e parlamentare al socialismo”, il problema della costruzione del partito rivoluzionario, marxista-leninista, della classe operaia è di nuovo all'ordine del giorno.
Le ragioni che portarono alla costituzione del P.C.d’I. nel 1921 sono più valide e attuali che mai! La gravità della crisi generale del capitalismo, la situazione drammatica in cui la borghesia ha trascinato il nostro paese, devono spingere tutti i sinceri comunisti, gli operai d’avanguardia, le donne proletarie, i giovani rivoluzionari a moltiplicare gli sforzi per la costruzione di una forte organizzazione politica indipendente e rivoluzionaria della classe sfruttata, senza la quale non si può avere nessuna prospettiva di abbattimento del barbaro e morente sistema capitalistico.
Il Partito comunista – reparto di avanguardia organizzato e cosciente del proletariato - è lo strumento indispensabile per dirigere la lotta del proletariato per la conquista del potere politico, l’instaurazione della dittatura del proletariato e la costruzione della società pianificata dei produttori, il socialismo!
Ogni organizzazione proletaria comunista lavora per questo Partito e invita tutte le compagne e i compagni che condividono gli stessi principi e obiettivi a separarsi nettamente e definitivamente col revisionismo, il riformismo e l’opportunismo, a confrontarsi, cooperare e organizzarsi insieme per costruirlo!
Gennaio 2017

sabato 14 gennaio 2017

La conferenza sul comunismo

Dal 18 al 22 gennaio a Roma conferenze, workshop, una tavola rotonda, un’assemblea finale e una mostra nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Un’iniziativa di ESC – Atelier Autogestito e della Galleria Nazionale di Arte Moderna

La storia dei comunismi realizzati e immaginati, delle loro vittorie e delle loro sconfitte. Il Capitale contemporaneo. I comunisti di oggi e le loro pratiche. Il potere, lo Stato, il governo. L’estetica comune, il comunismo estetico, della “sensibilità”. Pensatori, ricercatori, attivisti da tutto il mondo riuniti nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, per cinque giorni a Roma.
Con Étienne Balibar, Riccardo Bellofiore, Franco Berardi “Bifo”, Maria Luisa Boccia, Manuela Bojadžijev, Bruno Bosteels, Mario Candeias, Luciana Castellina, Pierre Dardot, Jodi Dean, Terry Eagleton, Marcelo Exposito, Silvia Federici, Roberto Finelli, Claire Fontaine, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Christian Laval, Christian Marazzi, Giacomo Marramao, Morgane Merteuil, Sandro Mezzadra, Antonio Negri, Brett Neilson, Ceren Özselçuk, Alexei Penzin, Kaushik Sunder Rajan, Jacques Rancière, Saskia Sassen, Peter Thomas, Enzo Traverso, Mario Tronti, Marcel van der Linden, Manuel Borja-Villel, Paolo Virno, Slavoj Zizek…
Dal 18 al 22 Gennaio a Roma, ospiti di ESC – Atelier Autogestito e della Galleria Nazionale di Arte Moderna. Ogni giornata vedrà alternarsi una conferenza principale e un workshop, per ognuno dei cinque temi principali che strutturano l’evento.
L’accesso a tutti gli eventi di C17 è libero e gratuito, fino a esaurimento posti; sono previsti accrediti esclusivamente per la stampa.

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18 Gennaio


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21 Gennaio


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Mostra

Oggi il comunismo non ha alternative. Proprio ora che sono dimenticati, non solo finiti, i socialismi reali e non c’è luogo sulla Terra in cui il desiderio comunista sia realizzato in solide istituzioni politiche. Oggi che il capitalismo non ha più limiti, paletti o riforme, e non smette di vincere. Se e quando produce, infatti, il Capitale non può che arrivare post festum, quando il Comune della cooperazione ha già preso corpo. Che si tratti di Sharing Economy o di Industria 4.0, l’innovazione produttiva poggia interamente sul «cervello sociale», cattura pratiche mutualistiche ed economia informale. Ma, soprattutto, il Capitale fugge la produzione e predilige la rendita, sia essa finanziaria o immobiliare. Per questo motivo primeggiano le recinzioni, dal land grabbing alla gentrification urbana, alla speculazione sulle commodities.
I «prerequisiti di comunismo» dilagano, nel soggetto produttivo (sempre più qualificato da linguaggio, affetti, mobilità) come nella discontinuità tecnologica (internet delle cose, svolta Social della Rete, intelligenza artificiale, ecc.); ovunque vengono negati. Sì, c’è un’alternativa al comunismo: una combinazione – la catastrofe del nostro tempo – che si chiama crisi e guerra. Non sarebbe la prima volta, il «Secolo breve» ce lo ha insegnato. Eppure c’è qualcosa di radicalmente nuovo: la crisi e la guerra non sono più evento-limite, ma regola. Non c’è guerra per esempio, tra quelle in corso, che non sia senza fine. Gli unici obiettivi, mai nominati e che pure emergono, coincidono con la destabilizzazione, sempre più profonda, di vaste zone del pianeta. Il mondo multipolare, figlio dell’esaurimento dell’egemonia americana, moltiplica i fuochi bellici. Guerre che nessuno vince e quasi tutti perdono. Ma la guerra è anche terrorismo, martirio, morte indiscriminata nelle metropoli d’Occidente; la guerra si combatte lungo i confini, contro i profughi, tra muri e filo spinato; la guerra è guerra ai poveri, guerra razziale, guerra alle donne. Anche la crisi è senza fine. I principali responsabili del disastro finanziario del 2008 continuano a comandare il mondo con montagne di denaro senza lacci, le disuguaglianze non smettono di aumentare, la classe media non esiste più, esistono solo straricchi e poi poveri e impoveriti. Tanto che, pare evidente, la povertà è diventata – a mezzo di esclusione come di politiche attive – dispositivo indispensabile per governare e sfruttare la forza-lavoro.
Il Capitale, per sopravvivere, per negare ogni giorno i prerequisiti di comunismo che pure animano produzione di valore e riproduzione sociale, deve fare a meno dello sviluppo, della democrazia, della pace, della sostenibilità ambientale; parole chiave, seppur spesso o quasi sempre tradite, dei «trent’anni gloriosi» e del riformismo a essi ispirato.
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Nel marzo del 2009, al Birbeck Institute for the Humanities di Londra, si è svolto un affollato seminario dal titolo L’idea di comunismo. Le figure più prestigiose del pensiero radicale europeo e mondiale (Badiou, Nancy, Negri, Rancière, Žižek, per citarne solo alcune) si sono confrontate per ore, e di fronte a un pubblico ampio e appassionato, in merito alla parola maledetta, interrogando il paradosso della nostra epoca fin qui descritto. Il convegno è stato replicato negli anni successivi a Berlino, New York e Seoul. Tre importanti volumi dal titolo L’idea di comunismo – curati da Alain Badiou e Slavoj Zizek, principali organizzatori dei convegniche raccolgono interventi tratti da quei seminari sono stati pubblicati da Verso Books e da parecchi altri editori internazionali.
Ispirandosi alla serie L’idea di comunismo, un gruppo di ricercatrici e ricercatori italiane/i indipendenti e universitari, attiviste/i dei movimenti sociali, scrittrici e scrittori, editori, giornaliste/i organizza un convegno sul comunismo a Roma, che si svolgerà dal 18 al 22 gennaio del 2017. L’urgenza è chiara, oggi più di qualche anno fa: torna attuale l’adagio rivoluzionario, l’alternativa radicale che ha attraversato gli inizi del secolo scorso, «comunismo o barbarie».
A differenza dei seminari di Londra, Berlino e New York quello di Roma tenterà di affrontare l’idea del comunismo a partire da una pluralità di approcci disciplinari: il “taglio” di genere sarà trasversale alla ricerca; indubbiamente sarà fondamentale la prospettiva filosofica, ma anche quella della critica dell’economia politica, delle scienze sociali, dell’arte. Nel seminario, poi, si combineranno protagonisti del pensiero radicale mondiale e giovani ricercatrici e ricercatori, attiviste/i dei movimenti, associazioni e gruppi che più sperimentano sul piano del nuovo mutualismo, del sindacalismo sociale, della difesa e riappropriazione dei beni comuni. Una linea di demarcazione percorrerà la discussione, informando momenti specifici di confronto: una storia, quella dei comunismi (presunti) reali, è finita; se ne apre un’altra. Lo sguardo genealogico, la storicizzazione, sarà il modo di guardare all’idea. Renderà dunque possibile l’immaginazione di strade ancora da fare, battute poco o per nulla. Va da sé che solo la pratica politica potrà esplorare questi sentieri, il censimento indiziario delle prime tracce, però, non può che far parte di questa pratica. Altro elemento fondamentale: la scrittura di un nuovo Manifesto comunista o l’inizio di un processo che porti alla sua scrittura. Obiettivo ambizioso, certamente, e tuttavia inevitabile per un seminario che vuole afferrare, con il pensiero, il tempo convulso, discontinuo e drammatico nel quale siamo immersi.
Forme di scrittura collettiva saranno del resto non solo esito, ma anche pretesto e premessa del seminario. Una serie di domande avranno il compito di introdurre gli assi tematici e articoleranno le cinque giornate di discussione.

Assi tematici

I temi, intorno a cui verteranno le cinque giornate, sono i seguenti:

1. Comunismi

C’è una storia del comunismo, anzi dei comunismi. Comunismi realizzati, partiti comunisti scomparsi o ancora vivi, processi rivoluzionari sconfitti, interrotti. Modificazioni genetiche dei comunismi che hanno contribuito alla temperie del ‘900. Con questa storia, e non solo con l’idea del comunismo, è necessario fare i conti. Per conquistare al comunismo una nuova possibilità.

2. Critica dell’economia politica

Cos’è diventato il Capitale nel XXI secolo? Come intendere la “singolarità” del capitalismo neoliberale? Si tratterà per un verso di qualificare – su scala globale – la nuova composizione del lavoro e dello sfruttamento. Ma anche, chiaramente, la composizione del Capitale stesso, tra estrazione del valore e finanza. Per l’altro di percorrere gli antagonismi e la produzione di soggettività (ambivalente) che segnano das Kapital contemporaneo.

3. Chi sono i comunisti?

Chi sono i comunisti oggi? Quale il vettore organizzativo che, per dirla con Marx ed Engels, può favorire la «formazione del proletariato come classe»? Ancora: quale il rapporto tra lotte economiche e lotte politiche? E quali le pretese di una nuova politica economica che metta al centro il Comune? Un’indagine a tutto campo sui processi di politicizzazione, sulle pratiche che innervano o possono innervare questi processi.

4. Poteri comunisti

Si chiedeva Foucault alla fine degli anni ’70: è possibile una «governamentalità socialista»? Oggi che la governance globale definisce una nuova articolazione dello Stato e delle sue funzioni, la domanda di Foucault si fa non solo attuale ma urgente. Altrettanto: è possibile immaginare o costruire istituzioni che non convergono nella macchina statale? L’ipotesi federalista, il grande rimosso della crisi europea, è anche ipotesi comunista? Esiste una pratica comunista del diritto, oltre e contro la sovranità nazionale e il progetto neoliberale?

5. Comunismo del sensibile

Ciò che è in primo luogo Comune è l’«Essere del sensibile». Sensibile nel quale siamo immersi; sensibile della nostra prassi; sensibile delle relazioni, nelle quali siamo sempre gettati. Riflettere sul sensibile significherà anche e soprattutto mettere in tensione il Comune del comunismo con l’estetica, con la costruzione del sensibile, dei suoi orientamenti. Ancora: sarà un modo per riflettere sul rapporto/conflitto tra attività (creativa) e lavoro, tra opera e merce.
A partire dagli assi tematici, il confronto si disporrà tra workshop, conferenze, una tavola rotonda iniziale, un’assemblea finale, una mostra (a partire dal 14 gennaio).

 



 
 

giovedì 29 dicembre 2016

Il regime del salario


Prefazione Il regime del salario 
Pubblicato Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
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Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
http://www.asterios.it/
 La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO